Fuggire dalle relazioni sociali: 3 film sull’atteggiamento “andare lontano”.

Fuggire dalle relazioni sociali: 3 film sull’atteggiamento “andare lontano”.

Fuggire via: quante volte abbiamo sentito il bisogno -più o meno temporaneo-, di allontanarci dalla gente. Allontanare da noi la confusione, le assurdità, l’impersonale corsa al consumismo, andare alla ricerca di quell’ambiente -fuori e/o dentro di noi- che ci aiuta a dirci chi siamo in realtà.

 Isolamento disfunzionale o ricerca di uno spazio più appartato più sano dove crescere e meglio svilupparci? 

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Karen Horney ha analizzato le tendenze sociali di “andare verso”, “andare contro” e “andare lontano”.

L’ “andare lontano” (o ”allontanarsi dalla gente”), è uno dei tre atteggiamenti descritti da Karen Horney (1885-1952), psichiatra e psicoanalista tedesca. È fondamentale operare, prima di tutto, una distinzione tra una sana necessità dell’individuo di ricercare una solitudine costruttiva e un bisogno di isolamento coatto, dettato da una difficoltà quasi insormontabile di stare a contatto con la gente.

Come infatti sottolinea l’autrice suddetta nel suo libro “I nostri conflitti interni” [1], la possibilità di ricercare una solitudine che abbia una finalità evolutiva per l’intera persona, è addirittura condizione auspicabile per diverse filosofie e religioni soprattutto quelle orientali. Diversi infatti sono gli esempi in questo senso: possiamo pensare al percorso da effettuare per raggiungere l’illuminazione descritta dal buddismo, oppure a Gesù Cristo quando si allontana dalle folle per ritirarsi a pregare sul monte [2]; come si può infatti raggiungere una sintonia con il proprio interiore e con l’ambiente circostante se siamo continuamente distratti dal vociare delle masse assordati e dei pensieri angosciosi?

Allontanarsi dalla gente dunque, assume anche un valore altamente simbolico -e non solo- di raggiungimento di un silenzio interiore che permette di entrare in profonda sintonia con se stessi.

L’altra parte della medaglia è invece rappresentata dal bisogno obbligato di fuggire dalle relazioni sociali: se nella ricerca di una solitudine costruttiva e funzionale abbiamo la libera scelta dell’individuo di isolarsi, qui la necessità deriva dalla costrizione: quella di riuscire a lenire il forte disagio che scaturisce da qualsiasi relazione sociale. È qui che la Horney incentra il suo discorso sull’aspetto nevrotico di questa solitudine che potremmo chiamare isolamento disfunzionale se non riconosciuto.

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Nelle religioni, la ricerca di una solitudine può essere sana.

Comportamenti tipici di questo atteggiamento sono l’ansia che queste persone possono provare quando il mondo esterno si intromette nella loro vita, come pure l’ingegnosità che devono assumere per far fronte al loro bisogno di autosufficienza; vive in loro uno spirito alla “Robinson Crusoe” come non manca di sottolineare la Horney [3]. Ecco dunque che prevale il bisogno di ridurre i propri bisogni onde non rischiare di dipendere troppo dall’esterno sociale.

Anche in quest’ultimo caso, l’indipendenza può avere un valore positivo ma anche uno negativo quando la sensibilità verso la paura di essere influenzato, manipolato e obbligato e così forte da scatenare un profondo disagio verso situazioni che possono essere anche solo scambiate -cioè soggettivamente percepite- per coercizzanti.

Secondo Vincent A. Morrone, psichiatra psicoterapeuta, “l’angoscia di base significa isolamento emotivo, tanto più duro a sopportarsi giacché si associa a un senso di debolezza intrinseca del sè e comporta un indebolimento delle fondamenta della fiducia in se stessi. Essa reca il germe del conflitto potenziale tra il poter contare sugli altri e l’impossibilità di farlo a causa della profonda sfiducia e ostilità nei loro confronti”. [4]

Non rimane dunque che il compito improbo di stabilire se e quando una situazione determinata da un sistema sociale, possa essere effettivamente coercitiva e castrante e se la questione possa essere risolta in termini oggettivi o soggettivi. In altre parole: dov’è il confine tra il sentirsi effettivamente oppresso e invaso e l’essere invece eccessivamente sensibili? E cosa significa essere “eccessivamente sensibili” verso il tema della possessione? Vuol dire che in questa società si può essere coercizzati, obbligati e influenzati purché in minima parte? E chi decide quanto è minima (o massima) questa parte?

Questi interrogativi, inoltre, riportano al significato che il concetto di libertà assume per la persona che si trovi in questi frangenti; vuol forse dire che l’individuo, per vivere bene, farebbe bene ad accettare una parziale libertà? Argomento fin troppo facile da accettare ma, come detto poco sopra, forse non è così scontato -e soprattutto standardizzabile-, distinguere tra una ricerca sana della solitudine e una disfunzionale che porta all’isolamento sociale.

Tre film sull’allontanarsi. [ATTENZIONE, SEGUONO SPOILER INDICATI!]

Per illustrare meglio l’atteggiamento dell’.allontanarsi, ho scelto tre film: “Into the Wild – Nelle terre selvagge” del 2008 di Sean Penn, “Tracks – Attraverso il deserto” del 2013 di John Curran, tratti entrambi da due biografie, e “Capitan Fantastic” del 2016 di Matt Ross.

 Into the wild – Nelle terre selvagge:  è certamente il più adatto per avere un esempio di cosa significhi l’atteggiamento dell’allontanarsi horneyanamente inteso. Il protagonista della vicenda, Christopher McCandless -in arte Alexander Supertramp-, è un ragazzo americano benestante che, subito dopo la laurea in scienze sociali conseguita nel 1990, decide di donare in beneficenza il denaro che i suoi genitori gli avevano fornito per continuare gli studi e di abbandonare amici e famiglia per sfuggire ad una società consumista e capitalista nella quale non riesce più a vivere. La sua inquietudine, in parte dovuta al cattivo rapporto con la famiglia e in parte alle letture di autori anticonformisti come Thoreau (citato anche dalla Horney [5]) e London, lo porta a viaggiare a piedi per due anni negli Stati Uniti e nel Messico del nord fino a raggiungere l’Alaska.

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La ricerca ossessiva di isolamento di Christopher McCandless del 1990-1992 narrata in Into the wild.

Quando si ha a che fare con film biografici, è bene forse mantenere una parte di scetticismo su quanto narrato e sulla loro fedele adesione alla realtà: non capita di rado infatti che gli sceneggiatori e i registi prendano solo ispirazione dalla storia reale piuttosto che aderirvi fedelmente. Tuttavia, da un dialogo con l’amico Wayne, appare che il protagonista, tal Alexander, si porti dentro una forte rabbia verso l’ambiente primario proiettata sulla società tutta:

Alexander: “uscire da questa società malata”, “io non capisco perché ogni persona è così cattiva col suo prossimo”, “non ha senso per me il giudizio, il controllo, tutta la gamma…”;

Wayne: “di quali persone stiamo parlando?”;

Alexander: “lo sai: dei genitori…degli ipocriti…dei politici…dei corrotti…”.

A dire la verità, questa rabbia verso i genitori, non era certo né dissimulata né inconscia: più volte le persone che Alexander incontrerà nel suo lungo viaggio, lo riporteranno davanti alle scomode domande “ma i tuoi genitori sanno dove sei?” oppure semplicemente “e i tuoi genitori?”. Interrogativi ai quali il protagonista risponderà con dei silenzi, sviandole o fino ad arrivare a dire “non ho una famiglia”.

Nel film si ha inoltre la netta sensazione che, probabilmente, Alexander voglia punire i suoi genitori tramite il dolore causato dalla sua improvvisa partenza e dalla totale assenza di sue informazioni. Tuttavia, pare ovvio che il tema preponderante sia la necessità di fuggire da qualsiasi relazione sociale, anche da quelle più positive, che il personaggio incontrerà nel suo percorso e che avrebbero potuto offrire un lenimento al dolore causato dalla mancanza di un ambiente primario accogliente.

A tal proposito, è significativo il rifiuto alla proposta di adozione mossagli dal militare veterano in pensione Ron, vedovo e senza figli: sembra che Alexander fugga anche da quella che poteva diventare una figura paterna positiva e accogliente. Non a caso, in una scena del film, il vecchio Ron fa la precisa domanda al protagonista “Alaska? Da che cosa stai scappando?”. Ma Alexander glissa nuovamente una domanda così scomoda e anzi aggiunge “ti sbagli [Ron, NdR] se pensi che le gioie della vita vengano soprattutto dai rapporti con le persone”.

Alexander sembra non accorgersi delle occasioni relazionali riparative che la vita gli pone davanti: il trebbiatore e amico Wayne, la coppia hippie Jan e Rainey, la giovane Tracy che si prende una cotta per lui e per finire il veterano Ron. Eppure Alexander sembra fuggire da tutti, indistintamente.

 [ATTENZIONE, SEGUE SPOILER!]  Bisogno di solitudine sana o isolamento distruttivo? Fatto sta che la sua ossessione per l’isolamento, lo porterà a sottovalutare i pericoli cui andrà incontro, ritrovandosi così isolato nel momento del bisogno da essere così sopraffatto dalla fame da ridursi a mangiare delle bacche velenose erroneamente scambiate per commestibili, azione che lo porterà alla morte, tramite una lenta agonia, in pochi giorni.  Probabilmente non era intenzione del protagonista vivere per sempre in quell’isolamento assoluto; in una battuta infatti egli dice: “probabilmente quando tornerò scriverò un libro sul mio viaggio”. La cosa certa però è questo bisogno di allontanarsi, temporaneo o definitivo che potesse essere, lo ha condotto verso la distruzione piuttosto che l’evoluzione.

 Tracks – Attraverso il deserto:  in questo film, ritroviamo sempre un bisogno di allontanarsi, di sentire il “silenzio del deserto”, così come una storia di un ambiente primario doloroso e non accogliente. La protagonista è Robyn Davidson, una donna che nel 1977 attraversò il deserto australiano in compagnia di soli quattro cammelli e un cane, visitata solo saltuariamente da un fotografo della rivista National Geographic, Rick Smolan, e da un anziano aborigeno che la accompagnò per un solo tratto dei 2.700 Km dell’intero percorso.

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La storia di Robyn Davidson che nel 1977 attraversò il deserto australiano narrata in Tracks.

La madre di Robyn si suicida impiccandosi quando lei ha solo undici anni e il padre la manda a vivere dalla zia. Alla richiesta di Robyn bambina di poter portare la sua cagnetta, il padre le risponde negativamente perchè dove andrà non ci sarà posto per un cane e che dunque sarà costretto a sopprimerla.

Lungo tutto il percorso, Robyn sarà pervasa da flashback di questo tipo. Non sappiamo quanto questo corrisponda alla realtà che ha affrontato la reale protagonista oppure sia solo un espediente dello sceneggiatore per illustrare allo spettatore il trauma subìto da Robyn. Tuttavia, in questo film, la protagonista sembra avere sempre una certa intolleranza per certe persone che lei reputa invadenti (gli amici che la vengono a trovare prima della partenza, lo stesso fotografo Rick, i vari turisti che incontrerà) ma il bisogno di isolamento sembra essere meno pressante e coatto rispetto all’Alexander di “Into the wild”.

Non conosciamo bene le reali motivaizoni alla base di tale impresa (emulazione del padre che anni prima aveva attraversato con successo il deserto del Kalahari in Africa?). Quello che è certo, è che vuole essere solo un viaggio, non un tentativo di isolamento a tempo indeterminato come troviamo in “Into the wild”. Forse qui siamo più vicini alla brama di una solitudine sana, ricercata attraverso un viaggio trasformatore la cui protagonista, come una novella Ulisse, torna alla sua Itaca trasformata: non è tanto la mèta quella che conta ma il viaggio in sè.

 Capitan Fantastic:  passando all’ultimo film, Capitan Fantastic è la storia, non realmente accaduta ma ispirata alla reale famiglia di origine del regista, di un nucleo familiare fuori dagli schemi, guidata da un padre, Ben Cash, da poco vedovo, che ha vissuto in isolamento per oltre un decennio lontano dalla moderna e consumistica società. I sei figli di Ben sanno cacciare, scalare una parete di roccia, parlano più lingue compreso l’esperanto, discettano sui sistemi politici, recitano a memoria la dichiarazione dei diritti e invece del Natale festeggiano il compleanno di Noam Chomsky.

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Capitan Fantastic: fobia della società o libera scelta di vivere isolati?

I figli di Ben hanno più cultura di gran parte dei loro coetanei cresciuti nell’agiatezza e nel consumismo delle grandi marche ma questo li pone spesso anche a rischi per la loro incolumità fisica e li porta a una sempre maggiore curiosità nei confronti di quel mondo esterno che non conoscono. Le difficoltà maggiori si acuiscono quando il figlio più grande, Bodevan, si ritrova completamente impacciato nella relazione con una ragazza conosciuta durante un viaggio e quando sottopone al padre Ben la sua intenzione di iscriversi a una università. Difficoltà maggiori, si acuiranno nel corso del film a causa delle conseguenze del suicidio della madre la quale soffriva di disturbo bipolare.

 [ATTENZIONE, SEGUE SPOILER!]  Alla fine, il padre Ben capirà di dover lasciare più liberi i figli di scegliere la vita che preferiscono, darà la sua benedizione al figlio maggiore Bodevan che partirà per visitare un paese straniero mentre il restante della famiglia vivrà in campagna a contatto con la natura ma non così isolati come all’inizio del film.

In questo film probabilmente si assiste alla proiezione sui figli del bisogno del padre (e della defunta madre) di allontanarsi dalla società moderna e dai suoi valori distorti. Tuttavia, è presente un legame molto forte tra i componenti di questa famiglia dove le emozioni non sono negate o vissute come vincolanti ma si possono esprimere collettivamente. É però innegabile che l’intero gruppo familiare si isoli come se fosse un organismo unico, ma la spinta all’individualità e alla scoperta tipica di un individuo in età evolutiva, fanno sentire il suo peso; peso che metterà in crisi gli obiettivi del padre Ben. In Capitan Fantastic si assiste a una ricerca della solitudine sana o dell’isolamento coatto? Difficile dirlo; la cosa forse che può corrispondere a un bisogno coatto di fuggire dalla realtà, è l’imposizione che il padre Ben e la madre Leslie fanno del loro atteggiamento sociale ai figli, sotto forma, tra l’altro, di informazioni negative stanti a evidenziare la (totale) negatività della società moderna.

Tema del suicidio e conclusioni.

Come affermava la Horney, tutti e tre gli atteggiamenti sociali (andare contro, andare verso e andare lontano), possiedono una positività quando non sono estremizzati e non coatti [6]. Dov’è la linea di demarcazione che a volte può essere davvero sottile? Sicuramente risiede nell’intensità e nella frequenza del disagio provato dalla persona ma io credo che ci sia anche un altro criterio che aiuta a fissare questo confine: è “bene” tutto quello che porta allo sviluppo, mentre è “male” tutto ciò che porta alla morte e alla regressione. Potremmo anche usare i termini introdotti da Erich Fromm “biofilia” e “necrofilia” rispettivamente[7].

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L'”andare lontano” in modo disfunzionale, può portare al suicidio come lo Jacopo Ortis di Foscolo.

Certo, l’anelito alla libertà è stato centrale in molte opere che hanno visto l’autodistruzione (il suicidio) del protagonista come massima espressione di questa aspirazione. Possiamo pensare a “I dolori del giovane Werther” di Goethe o a “Ultime lettere di Jacopo Ortis” di Foscolo.

Nell’opera di Goethe, abbiamo la figura del giovane intellettuale in conflitto con un contesto sociale in cui non può inserirsi in quanto non è in grado di identificarsi con la sua classe di provenienza, quella borghese, fondata sulla razionalità che si oppone al suo animo inquieto di artista. Allo stesso tempo viene respinto anche dall’aristocrazia chiusa nei suoi privilegi di casta.

Nell’opera di Foscolo invece, il protagonista Jacopo prova la stessa sensazione ma in ambito politico: egli infatti sente di non avere né patria, né un tessuto sociale e di governo degno di questo nome entro cui inserirsi. “Ultime lettere di Jacopo Ortis” è la più evidente espressione del pessimismo di Foscolo che lo indusse a credere nell’originaria malvagità dell’uomo, in perenne conflitto con gli altri uomini per sopraffarli e imporre il suo dominio.

Il suicidio dunque come soluzione estrema e come conseguenza dell’allontanarsi? Azione di biofilia o necrofilia? Pulsione di vita o di morte freudiane? Evoluzione o regressione? Certo, potremmo affermare che ci sono molte persone che danno la propria vita per salvare quella degli altri -il Cristianesimo originario si basa proprio su questo- eppure c’è una sostanziale differenza: in questo caso è un atto d’amore finalizzato a far vivere un altro essere. La differenza tra i due casi è dunque davvero netta.

Come sempre, è difficile -se non inappropriato- definire un metro di misura standardizzato entro il quale comprimere tutte le infinite sfumature di personalità delle persone. Solo l’autoanalisi (o l’analisi psicoterapeutica) che porta alla consapevolezza di se stessi, può aiutare a tentare di definire il labile confine che può esserci tra ricerca di una solitudine sana e bisogno coatto di isolamento.

Note.

  1. I nostri conflitti interni, Karen Horney, G. Martinelli Editore, 1971, pag. 63.
  2. Vangelo di Giovanni (6:15) e Luca (9:28).
  3. I nostri conflitti interni, op. cit., pag. 65.
  4. Il processo terapeutico, Vincent A. Morrone, Alpes, 2012, pag. 80.
  5. I nostri conflitti interni, op. cit., pag. 73.
  6. Ivi, pag. 77.
  7. Anatomia della distruttività umana, Erich Fromm, Oscar Mondadori, 2012, pag. 389.
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